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Università di Verona, studio sulla gestione dell'anemia falciforme dei rifugiati

Lo scopo è mettere a punto un progetto di screening per l'identificazione precoce di persone affette da questa malattia nei centri di seconda accoglienza

Dopo aver aperto una nuova frontiera terapeutica per prevenire le complicanze dell'anemia falciforme, una delle malattie monogeniche più comuni al mondo, l'Università di Verona ha coordinato uno studio, recentemente pubblicato sulla rivista Blood, per mettere a punto un progetto di screening per l'identificazione precoce di persone affette da anemia falciforme nei centri di seconda accoglienza per rifugiati. L'obiettivo è quello di garantire l'accesso all'assistenza sanitaria sia ai pazienti in fase acuta sia a quelli in fase cronica.
È il primo studio di questo tipo condotto sui rifugiati, che normalmente non sono sottoposti a screening per verificare la presenza di anemia falciforme.
La ricerca è stata finanziata interamente dall'ateneo scaligero ed è stata coordinata da Lucia De Franceschi, docente nel dipartimento di medicina dell'ateneo, diretto dal professor Oliviero Olivieri. Hanno collaborato quattordici partner, tra università, enti e centri, italiani e stranieri.

Lo studio è stato reso possibile dalla presenza della rete nazionale dei centri per il trattamento delle emoglobinopatie afferenti alla Società italiana per lo studio delle talassemie ed emoglobinopatie (Site), che convergono in Eurobloodnet, rete europea per le malattie rare ematologiche. «Il nostro lavoro ha permesso di evidenziare la necessità di introdurre lo screening per l'anemia falciforme nei rifugiati provenienti da aree del mondo endemiche per questa patologia, come le nazioni dell'Africa sub-sahariana - ha spiegato De Franceschi - Infatti, questo approccio consente di identificare precocemente questi soggetti e di prevenirne l'accesso ricorrente ai dipartimenti di emergenza per complicanze acute, che possono spesso portare a gravi conseguenze se non precocemente identificate come manifestazioni cliniche dell’anemia falciforme. Si tratta spesso di persone giovani, donne in gravidanza, soggetti fragili».

Allo scopo di selezionare i soggetti candidati allo screening sono stati sviluppati due algoritmi, uno per gli operatori sanitari dei centri di accoglienza e uno per i medici dei dipartimenti di emergenza per ottimizzare la gestione clinica delle complicanze acute.

Riteniamo che il nostro studio fornisca dei dati molto importanti relativi ad una patologia spesso poco nota e la cui incidenza è sottostimata nella popolazione dei rifugiat - ha concluso De Franceschi - Le coste italiane sono l'avamposto del Sud Europa di fronte ad una crisi umanitaria che ha portato alla mobilizzazione di persone da aree endemiche per l'anemia falciforme. Noi speriamo che i dati condivisi con la comunità scientifica internazionale possano aprire una discussione politica e sociale nazionale, europea ed internazionale sull'accessibilità alle cure per i rifugiati per il trattamento sia degli eventi acuti che delle complicanze croniche. Infine, il nostro studio ha evidenziato come una coordinata rete di centri esperti di patologia possa sopperire ed affrontare quesiti ancora senza risposta, generando risultati che richiedono un'attenta riflessione a livello nazionale ed europeo considerando la fragilità della popolazione dei rifugiati e la necessità di sostenere i centri esperti di patologia che ne possono assicurare la cura e prevenire le più gravi complicanze, riducendo anche i costi per il trattamento di questi giovani pazienti.

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