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Lunedì, 29 Aprile 2024

Profitti dell'evasione fiscale investiti in mining farm per far soldi con criptovalute

Una mining farm ma anche un'imbarcazione e beni per un valore di cinque milioni e mezzo di euro sono stati sequestrati dalla guardia di finanza a due indagati per reati fiscali e autoriciclaggio

I finanzieri di Padova e del nucleo speciale tutela privacy e frodi tecnologiche di Roma, coordinati dalla procura di Padova, hanno eseguito un sequestro preventivo per cinque milioni e mezzo di euro, finalizzato alla confisca dei beni e delle disponibilità finanziarie nella disponibilità di due imprenditori e delle imprese considerate a loro riconducibili. I due sono indagati per reati tributari e autoriciclaggio, in particolare per l'emissione e l'utilizzo in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti, per dichiarazione infedele e per il mancato versamento dell'Iva.
Il sequestro si è concentrato su disponibilità finanziarie reali e virtuali, immobili, un'imbarcazione da diporto di 15 metri del valore stimato di 1 milione di euro e anche di una "mining farm", ovvero uno spazio in cui generare criptovalute. Spazio che avrebbe generato ulteriori introiti per gli indagati una volta convertite le criptovalute in valuta corrente. Le Fiamme Gialle sono state in grado di cautelare 55 criptovalute Ethereum, nonché ulteriori criptovalute di vario tipo per un controvalore complessivo di 100mila euro circa. Sono stati, inoltre, sottoposti a sequestro due utility token che avrebbero fornito accesso a due specifiche mining pool, ovvero mining farm virtuali.

barca sequestrada da guardia di finanza

I reati contestati agli indagati si sarebbero principalmente concretizzati nella simulazione di contratti di appalto di servizi, che, in realtà, avrebbero celato una somministrazione illecita di manodopera.
Per il reclutamento del personale, le società committenti, principalmente delle province di Padova e Verona, si sarebbero rivolte a una società consortile operante in Veneto e riferibile ai due indagati. Questa società non era abilitata alla somministrazione di manodopera, ma era deputata all’assistenza delle imprese per consulenza e pianificazione aziendale. L'attività si sarebbe formalmente interposta tra le imprese clienti e alcune cooperative di lavoratori, con sede a Milano, Monza, Napoli, Varese, Parma, Torino e Rovigo, prive di strutture, mezzi e capacità gestionali, e di fatto dirette dai due principali indagati. Queste cooperative sarebbero state dei meri serbatoi di manodopera per provvedere all’assunzione delle maestranze con il relativo sostenimento degli oneri retributivi, fiscali e contributivi.
Attraverso le testimonianze raccolte tra gli oltre 100 lavoratori dipendenti e le analisi delle comunicazioni e dei supporti digitali aziendali, gli investigatori hanno fatto emergere l'inesistenza sostanziale delle società cooperative appaltatrici, in ragione di un rapporto di somministrazione della manodopera. Ed è stato riscontrato che le cooperative fatturavano all’ente consortile i soli costi riferiti al "netto in busta paga", mentre i debiti tributari e contributivi non venivano onorati dalle cooperative, danneggiando l'erario.
Gli organi inquirenti ritengono che il risparmio di denaro derivante dal mancato assolvimento degli oneri fiscali costituisca illecita ricchezza, in parte trasferita anche su conti esteri riferibili ai due principali indagati.

Ed è stato ipotizzato che parte del profitto generato sia stato investito nell’acquisto di schede video, utili alla realizzazione di una mining farm, cioè una struttura hardware e software dalle altissime prestazioni e dagli elevatissimi consumi di energia elettrica, in grado di risolvere simultaneamente e in sequenza, nell’ambito di una tecnologia a consenso distribuito (blockchain) all’interno della quale vengono movimentate le varie criptovalute presenti sul mercato.
La struttura sottoposta a sequestro, il cui fabbisogno energetico medio ammontava a quasi 100mila euro all’anno, era stata allestita all’interno di un prefabbricato posto negli spazi aziendali e dotato di un impianto di ventilazione, uno di raffreddamento e uno antincendio. La mining farm era composta da un computer che fungeva da "postazione di gestione", cui erano connesse oltre 350 schede video, complete di schede madri funzionali al mining, suddivise in 31 gruppi omogenei di elaborazione. Gli accertamenti svolti hanno permesso di individuare diversi portafogli virtuali (wallet), nella disponibilità del soggetto considerato il promotore del meccanismo evasivo, in cui erano confluite criptovalute prodotte dalla struttura informatica.

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