Mattarella ha deciso: whatever it takes. Draghi convocato al Quirinale per mezzogiorno
Nuova svolta nella crisi politica, ma la nascita del governo istituzionale non è scontata
Whatever it takes, ovvero letteralmente qualsiasi cosa serva, qualunque cosa di cui ci sia bisogno siamo pronti a farla, costi quel che costi. La celebre formula pronunciata da Mario Draghi, allora presidente della Bce, con l'Europa dell'euro in grave difficoltà e lo spread in salita, servì durante una conferenza a Londra a far capire a tutti che il futuro economico europeo sarebbe passato (malgrado e contro ogni euroscetticismo) attraverso la moneta unica: «La Bce preserverà l’euro, costi quel che costi (whatever it takes). E, credetemi, sarà abbastanza», disse Mario Draghi. Era il luglio del 2012. Oggi il motto proverbiale ben si adatta ad un altro salvatore della patria, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, costretto nuovamente dall'immaturità della compagine politica a prendere in mano le redini del Paese, con una mossa interventista quanto basta per mettere tutte le forze parlamentari all'angolo: whatever it takes, le elezioni è meglio rinviarle a dopo.
Sì, perché al di là delle chiacchiere sull'articolo 1 della Costituzione, vi è poi lo scenario nel quale il Paese si trova che, per chi lo avesse dimenticato non è esattamente il migliore possibile. Il presidente della Repubblica, primo garante della nostra Costituzione, nel suo discorso di ieri sera ha ricordato punto per punto i motivi per i quali andare ad elezioni anticipate sarà l'ultima opzione che considererà solo e soltanto se sarà costretto a farlo dall'irresponsabilità del parlamento: «Il lungo periodo di campagna elettorale e la conseguente riduzione dell’attività di governo, coinciderebbe con un momento cruciale per le sorti dell’Italia», ha detto il presidente Sergio Mattarella che poi ha spiegato: «Sotto il profilo sanitario, i prossimi mesi saranno quelli in cui si può sconfiggere il virus oppure rischiare di esserne travolti. Questo richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti via via necessari e non un governo con attività ridotta al minimo, come è inevitabile in campagna elettorale». E ancora il presidente della Repubblica ha ricordato la «campagna di vaccinazione», il fatto che «a fine marzo verrà meno il blocco dei licenziamenti». Ma soprattutto, «entro il mese di aprile va presentato alla Commissione Europea il piano per l’utilizzo dei grandi fondi europei; ed è fortemente auspicabile che questo avvenga prima di quella data di scadenza, perché quegli indispensabili finanziamenti vengano impegnati presto. E prima si presenta il piano, più tempo si ha per il confronto con la Commissione». Il presidente Sergio Mattarella sul punto specifico è stato chiarissimo: «Un governo ad attività ridotta non sarebbe in grado di farlo. Per qualche aspetto neppure potrebbe. E non possiamo permetterci di mancare questa occasione fondamentale per il nostro futuro».
Governo di unità nazionale?
La convocazione di Mario Draghi al Quirinale per le ore 12 di oggi, mercoledì 3 febbraio, sembra essere lo scontato preambolo di un incarico ufficiale a formare un nuovo governo «di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica», per usare ancora una volta le parole del presidente Mattarella. Il "problema" è però che anche un governo "tecnico" o "del presidente", o "istituzionale" che dir si voglia, ha comunque ugualmente bisogno del necessario appoggio "politico", deve cioè ricevere la fiducia dai partiti che occupano gli scranni di entrambe le Camere del parlamento italiano. Ecco perché in questa fase così concitata per il nostro Paese nulla è scontato, nemmeno che un ipotetico governo a guida Mario Draghi riesca ad ottenere la fiducia dalle forze politiche dell'attuale parlamento e, in ogni caso, le opzioni in campo produrrebbero dal punto di vista politico delle vere e proprie maggioranze spurie e, quantomeno, insolite.
Quali maggioranze per l'ipotetico governo Draghi?
La prima e più "tragicomica" opzione sarebbe stata quella di vedere le stesse forze politiche che fino a ieri sera hanno cercato di dare vita ad un governo politico, ritrovarsi ora insieme a sostenerne uno istituzionale. In sostanza se il M5S fosse un "partito" e non un movimento dai mille rivoli o correnti, l'ipotesi più scontata sarebbe quella che ad appoggiare Draghi si ritroverebbero anzitutto appunto i grillini, insieme al Pd, Leu ed Italia Viva (oltre ovviamente a chi volesse starci in aggiunta). Il che farebbe alquanto sorridere, poiché vorrebbe dire aver rinunciato al "potere" perché non si è trovato un accordo, per poi comunque essere costretti ad andare d'accordo sotto l'egida di un premier e relativi ministri scelti dal presidente della Repubblica.
Così però non sarà, poiché da Fraccaro a Toninelli in tanti all'interno dei pentastellati si sono affrettati a dichiarare: «Non chiedeteci di votare Mario Draghi». Ebbene, è assai probabile che la mossa del presidente della Repubblica di indicare Draghi quale incaricato del nuovo governo istituzionale nascente, avrà come effetto quello di "spaccare", da un lato, il Movimento 5 Stelle, dall'altro anche la cosiddetta "coalizione del centrodestra". Se, infatti, è possibile che tra i grillini vi saranno alcuni che sceglieranno di essere dei "responsabili/costruttori" (la nemesi linguistica è servita!), non è affatto scontato nemmeno che tra Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia tutto scorra liscio nel segno dell'unità. Berlusconi ha sempre rivendicato il merito di essere colui il quale rese possibile l'ascesa in Europa di Mario Draghi e fino a pochi giorni fa parlava della necessità di «un governo dei migliori». A questo si aggiunga che oggi il parlamento vede un buon numero di forzisti, mentre andando a elezioni sicuramente i parlamentari per Berlusconi si ridurrebbero di molto (cosa questa che vale altresì per il M5S che, dicono i sondaggi, perderebbe oltre i due terzi dei suoi parlamentari odierni se si andasse al voto: un'ecatombe).
Ciò detto, resta da capire quale sarà la posizione "comune", se ve ne sarà una, nel centrodestra. Ammesso e non concesso che tutta Forza Italia voti la fiducia a Draghi insieme al Pd ed altri partitini della sinistra o del centro, comunque i numeri non ci sarebbero senza l'apporto contemporaneo di M5S e Lega. Dunque, le ipotesi sono due: se i pentastellati compatti dovessero rifiutarsi di appoggiare Draghi, sarebbe necessario che insieme al Pd ed i "partitini" votassero la fiducia a Draghi sia Forza Italia che la Lega, e a quel punto chissà che allora non si decida tutto il centrodestra con anche Fratelli d'Italia. Ma la cosa avrebbe del clamoroso: di fatto i cosiddetti "sovranisti" si troverebbero alleati del famigerato Pd (e viceversa), appoggiando peraltro un uomo delle istituzioni europee che, a suo tempo, difese l'euro whatever it takes. Chi glielo spiega a Borghi e Bagnai? L'altra ipotesi è appunto che alla fine il centrodestra tanto unito, al di là delle dichiarazioni, non sia. E che quindi una parte della Lega (Giorgetti cosa sta pensando in queste ore?) e, chissà, forse persino di FdI alla fine appoggi il governo Draghi insieme a Forza Italia ed il Pd, oltre naturalmente ai "partitini" del centro e del gruppo misto (Calenda ha già detto sì) ed eventualmente della sinistra (Leu).
Chi vince e chi perde?
L'impressione è che se si andasse al voto, qualora nessuna delle due ipotesi appena esposte si verificasse, a rimetterci sarebbero azitutto gli italiani. Le scadenze fissate dal presidente della Repubblica nel suo intervento di ieri sera, quali che siano le proprie convinzioni nell'urna elettorale, sono molto concrete e sostenere il contrario è assai difficile. Certo se il voto sarà l'estrema ratio, non vi sarebbe alcuno scandalo nell'andare a votare entro giugno, solo qualche ripercussione economica di rilievo da fronteggiare e, dunque, la responsabilità politica di assumersi questa irresponsabilità da parte di forze che dovessero decidere compatte di non votare la fiducia a Mario Draghi: il M5S, Lega, Fratelli d'Italia, e nel caso pure Forza Italia.
Al netto di tutto questo, ad uscire sconfitta da questa crisi è in primis la politica italiana tutta, incapace di andare oltre i personalismi, gli egotismi e rivelando un altissimo tasso di miopia istituzionale oltre che un quasi irrimediabile scollamento con il cosiddetto "Paese reale", quello cioè fatto di persone che vedono i propri cari morire per un virus infido ed ancora non sconfitto, ma anche chiudere imprese o tante persone perdere il lavoro. Non è facile qualunquismo, purtroppo, ma una banale ed altrettanto dolorosa constatazione. Renzi ha forse ottenuto qualcosa? Una fievole ondata di popolarità che oggi lo ritrova là dove lo si era lasciato, nell'ininfluenza più totale, e con lui tutti i suoi seguaci. Quanti di loro saranno rieletti al prossimo giro? Pochissimi.
Il M5S ha guadagnato qualcosa? Fratture interne insanabili ed il rischio di finire all'opposizione con il 33% dei voti ottenuto alle ultime elezioni, un motivo in più per prevedere che l'eventuale prossima tornata elettorale sarà devastante per i grillini. Il Pd a sua volta si è rivelato incapace di incidere, abbarbicato paradossalmente in un eccessivo senso di responsabilità istituzionale che rischia però agli occhi del Paese di passare per passività. Nel centrodestra, ci si consenta di dirlo, ora la "pacchia è finita", poiché i nodi vengono al pettine ed è il tempo dell'assunzione di responsabilità anche scomode, non più quello delle facili critiche proprie dello spettatore distaccato che contempla il naufragio placidamente seduto sulla riva: Draghi sì, o Draghi no? Le vere ed ultime conseguenze politiche ed economiche delle molteplici crisi che attraversano l'Italia, quella sanitaria, sociale, economica anzitutto, oltre che di governo, passano inevitabilmente da qui per tutti i partiti del parlamento, dall'assunzione cioè di decisioni politiche vere, costi quel che costi, whatever it takes.