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L'Italia nelle mani di Giorgia Meloni. Centrosinistra sconfitto, M5S resiste e il "terzo polo" di Calenda arriva quarto

Chi vince e chi perde: la Lega fagocitata da Fratelli d'Italia entra in crisi e si apre la partita dell'autonomia. Cala la notte tra i "progressisti": Pd sotto il 20%, Calenda-Renzi sotto il 10%. Il Movimento 5 Stelle dimezza i voti del 2018, ma sorprende il 15%

«Oggi abbiamo scritto la storia. Questa vittoria è dedicata a tutti i militanti, i dirigenti, i simpatizzanti e ad ogni singola persona che - in questi anni - ha contribuito alla realizzazione del nostro sogno, offrendo anima e cuore in modo spontaneo e disinteressato». Con queste parole la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni ha voluto commentare a caldo l'ottimo risultato elettorale appena conquistato dal suo partito. La stessa Meloni ha poi allargato la dedica per la vittoria a «coloro che, nonostante le difficoltà e i momenti più complessi, sono rimasti al loro posto, con convinzione e generosità» e a chi «crede e ha sempre creduto in noi». Quindi è arrivata l'immancabile promessa: «Non tradiremo la vostra fiducia. Siamo pronti a risollevare l’Italia». 

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La netta vittoria del centrodestra e la crisi della Lega

La coalizione del centrodestra ha vinto le elezioni politiche 2022 in modo netto, il primo dato irrefutabile da porre in valore analizzando il voto del 25 settembre è sicuramente questo. Lo scrutinio va concludendosi ma i numeri parlano chiaro: alla Camera Fratelli d'Italia, Forza Italia, Lega e Noi Moderati raggiungono circa il 43,92% delle preferenze, mentre la coalizione di centosinistra si ferma al 26,18%. Seguono il Movimento 5 Stelle al 15,30% e Azione-Italia Viva al 7,76%. Al Senato la storia non cambia: il centrodestra è al 44,16%, mentre la coalizione di centrosinistra si ferma attorno al 26%, seguita da M5S che si conferma il vero "terzo polo" del parlamento con il 15,46%, mentre il quarto polo di Calenda e Renzi resta anche qui lontano dalla doppia cifra tanto sbandierata in campagna elettorale ottenendo solo il 7,73%.

A fronte di tale scenario appare certo che il prossimo governo in Italia sarà di centrodestra, verosimilmente con Giorgia Meloni premier, anche se su questo punto va comunque fatta un piccola considerazione. L'accordo preelettorale tra i partiti della coalizione di centrodestra prevedeva che quello che avesse conquistato più voti avrebbe potuto indicare il premier del futuro governo. Ciò può intendersi in due modi, e di fatto così è stato: da un lato è normale pensare che il leader del partito vittorioso sia anche il candidato premier, dall'altro vi è però chi ha spiegato tale accordo in modo diverso, ovvero sostenendo che al partito che ottenga più voti spetti sì di indicare il futuro premier, ma che quest'ultimo debba anche essere una figura in grado di mettere d'accordo tutti gli altri leader dei partiti che compongono la coalizione di centrodestra. Insomma, alla luce del risultato elettorale, è certo che ora spetti a Giorgia Meloni indicare il premier del prossimo governo, non è però necessariamente scontato che qualora indicasse se stessa questo non possa finire con il creare degli attriti.

In realtà la strada verso Palazzo Chigi per la Meloni appare comunque abbastanza spianata a fronte dell'unica macchia, piuttosto grave a onor del vero, nella vittoriosa serata del centrodestra: la crisi, netta e innegabile, della Lega guidata da Matteo Salvini. I numeri su questo non mentono: alla Camera il Carroccio conquista un misero 8,8% ed al Senato si ferma all'8,89%. In sostanza sono percentuali che corrispondono a quelle ottenute da Forza Italia, un partito dato quasi per spacciato da molti anche nell'alveo del centrodestra ma che in questa tornata elettorale è sicuramente tornato a "ruggire", ottenendo alla Camera ed al Senato rispettivamente l'8,10% e l'8,27%. Con questi numeri, una volta tramutati in seggi, è chiaro che la capacità contrattuale della Lega nell'ambito della coalizione di centrodestra è assai ridotta rispetto alle aspettative.

Oltre a ciò, nel medio e lungo periodo, a pesare nei rapporti tra gli alleati potrebbe anche essere un'altrettanto inequivocabile circostanza, ovvero che lo straordinario successo ottenuto dal partito di Giorgia Meloni, davanti a tutti con circa il 26% delle preferenze sia al Senato che alla Camera, si spiega anzitutto con il processo di fagocitosi dell'elettorato leghista da parte appunto di Fratelli d'Italia. Su questo punto l'analisi dei flussi elettorali è spietata: circa la metà dei voti persi dalla Lega è andata a rimpolpare il bottino del partito di Giorgia Meloni. Il progetto di una Lega che da partito del Nord si presenta come partito nazionale, ovvero l'ambizione politica più autentica promossa da Matteo Salvini, parrebbe aver raggiunto il suo capolinea dopo una breve parentesi di successo. E questo poiché, forse, in fondo in fondo una "Lega nazionale" altro non è che un doppione proprio di Fratelli d'Italia. Insomma, chi prima votava la Lega di Salvini poiché vi riconosceva degli ideali patriottici ed identitari forti, oggi ha spesso e volentieri preferito affidarsi a Fratelli d'Italia, dove ha ritrovato quegli stessi ideali senza però il vulnus del trasformismo ideologico (dalla Padania al Gargano per Meloni & Co. l'Italia è sempre stata una ed indivisibile, non una e trina), ma soprattutto un partito forte della lunga parentesi parlamentare trascorsa sui banchi dell'opposizione, evitando quindi di compromettersi con le difficili scelte prese dai vari esecutivi durante la recente fase di crisi (dovuta in larga parte alla pandemia prima ed ora al conflitto tra Russia ed Ucraina). Resta dunque apertissimo ed irto di insidie il dossier sull'autonomia che, guarda caso, coinvolge da vicino proprio quelle Regioni dove la Lega delle origini era tradizionalmente forte, e tra queste ovviamente anche il Veneto. 

Gli sconfitti e i redivivi

Circola online un breve video nel quale la renziana Maria Elena Boschi sottolinea quasi con gaudio che «gli sconfitti di queste elezioni sono Salvini e Letta». La stessa Boschi poi si dice soddisfatta per il risultato di Azione-Italia Viva che andava profilandosi ieri notte «verso la doppia cifra». In realtà il cosiddetto "terzo polo" si è rivelato un enorme flop, checché ne vogliano dire i suoi diretti esponenti. E questo perché nessuno degli obiettivi prefissati dalla strana coppia Calenda-Renzi è stato in realtà raggiunto: il 10% è restato un miraggio, così come sia alla Camera che al Senato Azione-Italia Viva ha preso meno voti di Forza Italia, ovvero il 7,78% alla Camera ed il 7,73% al Senato. In aggiunta, il fallimento del progetto calendarenziano è tutto spiegato nel contrappasso spietato che vede il sedicente "terzo polo" arrivare fatalmente quarto dietro ai tanto vituperati Cinquestelle, quelli che per Calenda vanno bene solo come insegna degli hotel (cit.). 

Ora, è evidente che anche il Partito democratico è andato maluccio. Ha preso meno del 20% sia alla Camera che al Senato, rispettivamente il 19,10% ed il 18,97%. Anche qui, tuttavia, a parlar forte e chiaro è l'analisi dei flussi elettorali. Lo "strappo" di Calenda dopo l'accordo raggiunto con Letta ha portato, nei fatti, ad una migrazione dei voti proprio del Partito democratico verso Azione-Italia Viva, là dove la lista di Renzi e Calenda sarebbe invece nata, nelle intenzioni dichiarate dei due leader, per sottrarre voti al centrodestra. Col senno di poi son bravi tutti, ma è evidente che il 7% di Azione-Italia Viva sommato al circa 19% del Pd sarebbe da solo bastato per quantomeno eguagliare il risultato di Fratelli d'Italia.

Un discorso non troppo dissimile si potrebbe ovviamente fare anche volgendo lo sguardo a quel famoso virtuale "campo largo" repentinamente abbandonato da Enrico Letta all'indomani dell'apertura della crisi di governo, mettendo all'angolo i correi del Movimento 5 Stelle ritenuti colpevoli di aver affossato Mario Draghi e la sua scialuppa. È infatti innegabile che il 15% circa ottenuto dai grillini sia alla Camera che al Senato sia un risultato per certi aspetti sorprendente, sicuramente buono a fronte della caduta libera annunciata prima del voto, pur non volendo dimenticare che si tratta comunque di un dimezzamento delle preferenze ottenute cinque anni fa.

Resta dunque a maggior ragione un'enorme incognita nel campo dei cosiddetti "progressisti", ovvero con chi diavolo voglia il partito di maggioranza relativa in tale ambito, cioè appunto il Pd, provare a governare un domani il paese. Perché una cosa è certa, da soli i dem con gli attuali compagni di viaggio, non sono in grado di andare da alcuna parte. O il Pd prova a tendere una mano al centro di Calenda e Renzi, oppure prova a riallacciare i rapporti con "Giuseppi" ed il suo redivivo Movimento 5 Stelle che pesca voti là dove i dem fanno molta più fatica: periferie e sud Italia. In entrambi i casi si tratterebbe chiaramente di ingoiare qualche proverbiale "rospo".

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