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Cosa fare a Verona e provincia durante il weekend dal 27 al 29 marzo 2020

I nostri consigli su come trascorrere il vostro fine settimana

Restare a casa (in stato di attenzione).

Anche questa settimana, esattamente come le ultime due trascorse, il presente articolo potrebbe chiudersi qui. E, tuttavia, l’invito che proponiamo in questa circostanza è anche quello di compiere un breve viaggio nel "mare aperto" della politica che, non senza una certa acutezza, gli antichi greci ritenevano appunto essere un’arte della navigazione. Le onde difficili da affrontare per chiunque in questi giorni sono quelle invisibili di un virus che, forte di questa sua inapparenza, non cessa però di manifestarsi negli effetti che, talvolta in modo diretto altre volte indirettamente, con ostinata caparbietà continua a produrre.

Le conseguenze dirette del virus sono registrate quotidianamente da una contabilità dell’orrore che ha, al netto di un certo grado d’inevitabilità cronachistica che la "giustifica", il suo peggior difetto nell’anonimizzare e rendere sostituibile in astratto ogni essere umano coinvolto: soggetti positivi, ricoverati di ogni ordine e grado, persone in isolamento fiduciario, morti e pazienti dimessi, tutti quanti concorrono indistinguibilmente, loro malgrado, alla composizione asettica e annichilente di grafici, trend, statistiche e tendenze. Vi sono poi le conseguenze indirette del virus, tra le più evidenti quella di aver visto stravolgere nel giro di brevissimo tempo le nostre vite quotidiane: spostamenti solo se necessari, la passeggiata col cane entro 200 metri da casa, l’indicazione di evitare i contatti perché potenzialmente pericolosi in quanto potrebbero contribuire al propagarsi del contagio…la lista potrebbe proseguire a lungo.

È in particolare su questa seconda tipologia di effetti, quelli appunto indiretti (ed è forse questo il suo più grande limite o il suo vizio d’origine), che si è venuto a creare negli ultimi giorni in Italia un ampio dibattito cultural-filosofico attorno al coronavirus e la relativa epidemia. Ad aver lanciato il primo sassolino nelle acque placide del pensiero è stato Giorgio Agamben, uno tra i massimi filosofi italiani viventi che, sia detto per inciso, molto ha a che spartire anche proprio con il passato ed il presente dell’ateneo di Verona. Il sassolino ha per nome "L’invenzione di un’epidemia", un breve testo affidato alla rubrica Una voce ospitata su Quodlibet e che ha provocato rapidamente uno tsunami.

«Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona, - scrive Giorgio Agamben - occorre partire dalle dichiarazioni del CNR, secondo le quali non solo "non c’è un'epidemia di SARS-CoV-2 in Italia", ma comunque "l’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva". Se questa è la situazione reale, perché i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni?».

Giorgio Agamben fornisce due risposte a questa sua domanda, di fatto entrambe già contenute in potenza nell’analisi della situazione che il passo appena citato descriverebbe secondo il filosofo: la prima è «la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo», mentre la seconda spiegazione al "clima di panico" che "media e autorità" si adopererebbero per diffondere, sarebbe «lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale».

Ora, ci sono tanti e vari modi di accogliere queste parole e provare a commentarle. Vi è chi ha trovato lo spunto per virulenti e salaci attacchi, chi invece si è con pacatezza e benevolenza dissociato, salvaguardando l’amicizia che, tra filosofi, pare abbia ancora una certa importanza. Per il momento accontentiamoci di fare alcune precisazioni: Giorgio Agamben scrive il suo primo contributo (ne seguiranno altri due) in data 26 febbraio, citando quale voce scientifica nelle sue premesse il CNR, vale a dire il Consiglio Nazionale delle Ricerche, e in particolare una breve "nota stampa" datata 22 febbraio. Se per invalidare tutto quel che il filosofo Agamben ha da dirci bastasse minarne le premesse scientifiche, allora sarebbe sufficiente leggere per intero proprio la nota stampa del CNR da lui citata che, infatti, oltre alle cose già riportate e riassumibili nell’espressione «non c'è un'epidemia di SARS-CoV-2 in Italia», subito dopo però specifica: «Il quadro potrebbe cambiare ovviamente nei prossimi giorni». Detto molto in breve, il quadro ad oggi, ebbene sì, è molto cambiato, così come è cambiata, coerentemente, la linea scientifica del CNR. Per rendersene conto è sufficiente visitarne il sito web, leggendo qua e là i contributi dedicati alla «grave emergenza sanitaria in corso». Nell’ultimo dei suoi tre interventi in ordine cronologico, dal titolo umoristico “Chiarimenti” e datato 17 marzo 2020, Giorgio Agamben in perfetta assonanza con le sue parole di circa venti giorni prima scrive invece che ciò che «l’epidemia fa apparire con chiarezza è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione normale». Insomma, il quadro è cambiato, l’epidemia si è fatta «pandemia», il CNR si è scientificamente adeguato allo stato di cose, il filosofo invece, ostinato e fastidioso, continua a battere il chiodo.

Sono state forse le ragioni del cuore a far rispondere sul tema Jean-Luc Nancy, un altro filosofo, il quale con finezza e gentilezza ha ricordato all’amico Agamben che, rispetto all’influenza, «il coronavirus per il quale non esiste alcun vaccino è capace di una mortalità evidentemente ben superiore». Lo stesso Nancy ha sottolineato che on peut se tromper, ci si può sbagliare, come quando anni addietro Agamben gli avrebbe sconsigliato di ascoltare i medici che suggerivano per lui un trapianto cardiaco: «Se avessi seguito il suo consiglio - scrive Jean-Luc Nancy - senza dubbio sarei morto abbastanza presto». Nancy va però anche oltre e, non senza forse una punta di rimprovero, evidenzia all’amico che, dinanzi all’attuale situazione, prendersela con i governi «assomiglia più a una manovra diversiva che a una riflessione politica». Vi è però in tutta questa faccenda un ulteriore elemento di problematizzazione che, forse non a caso, ha fornito in modo indiretto ma esplicito proprio il primo ministro italiano Giuseppe Conte che, come molti sanno, è un giurista ed anche un accademico. Nel corso della sua informativa alla Camera del 25 marzo dedicata all’emergenza sanitaria, il premier ha letteralmente parlato di «straordinarietà, eccezionalità dell’evento» in riferimento appunto alla pandemia in atto. Difficile non leggere in quell’eccezionalità un volontario richiamo al paradigma dello "stato di eccezione", certo non per fomentare un’autolesionistica polemica, quanto per individuare, con consapevolezza di conoscitore del "Diritto", il pericolo cui è pur sempre necessario sottrarsi. Ancor più esplicito in questo senso ci pare essere un altro passaggio del discorso alla Camera del premier, là dove Conte ha ribadito la necessità di «tutelare il bene primario della salute dei cittadini», ma al contempo anche di «assicurare adeguati presìdi democratici». Insomma, l’impressione e, certo, anche l’auspicio, è che l’ombra di Carl Schmitt, per quanto così vicina, sia altresì molto distante.

Che cosa resta delle parole di Giorgio Agamben sul coronavirus? Qualcuno si augura probabilmente niente, noi crediamo invece vi sia ancora qualcosa da ascoltare in quella pur strana, molto strana voce. Sono le domande che pone, il farsi domanda della parola più che le risposte trovate attraverso un consolidato paradigma concettuale: «Che cosa diventano i rapporti umani – si chiede Agamben - in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?». Per rispondere con altre domande bisognerebbe chiedersi se sia davvero così, se cioè la richiesta di "restare a casa" discenda solo e soltanto dal "valore della sopravvivenza" e non anche dalla contagiosa solidarietà verso gli inermi, verso chi più è esposto alle insidie del virus. Ma Agamben non sta probabilmente descrivendo l’attuale situazione di cose (impressione leggendo i suoi contributi comunque legittima, non vogliamo nasconderlo), quanto piuttosto manifestando tutta la sua allergia verso un futuro che, si spera, nessuno di noi debba mai trovarsi a vedere: «Quello che preoccupa - scrive sempre Agamben - è non tanto o non solo il presente, ma il dopo». E cosa verrà davvero poi, quando gli altri avranno smesso di essere anzitutto dei potenziali "untori", quando quella che Agamben chiama la «guerra civile» contro «un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo» sarà passata, ebbene, nessuno esattamente può saperlo. Ed è però proprio qui che, forse, si rivelano anche "le virtù del virus", così come le ha definite Rocco Ronchi, il quale altrettanto da filosofo dice una cosa molto bella e molto condivisibile: dinanzi all’evento della pandemia di coronavirus Sars-CoV-2, noi siamo tutti quanti troppo vicini e dunque testimoni inaffidabili, troppo prossimi a questo evento inaspettato, a questo incontro traumatico e spaesante «per poter scorgere il futuro che reca in grembo».

Noi non sappiamo, non possiamo sapere, se davvero come scrive Agamben il dopo il coronavirus prevedrà che «si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line». Ed è certo vero che, così come qualcuno ha detto una volta con estrema dolcezza, «un bacio in Erasmus non andrebbe negato a nessuno». Tuttavia, se del futuro non vi è certezza, quel che il virus rivela già in queste fasi è di essere non solo la causa di segregazioni casalinghe e atomizzazione sociale, quanto anche quella che sempre Rocco Ronchi chiama «una via di comunicazione e non il segno di una esclusione». Il nostro prossimo è ben lungi dall’essere stato abolito, egli piuttosto pare essere diventato lo straniero, il nostro prossimo, attraverso il virus, non è mai stato così distante. Nostro prossimo, da tutelare semplicemente restando a casa, è oggi davvero chiunque, l’anziano burbero e scostante del piano di sopra così come il giovane immunodepresso di una città nella quale non metteremo mai piede e con il quale non scambieremo mai una parola per il resto della nostra vita. Una vita che, attraversata dal virus, non smette di rivelarsi proprio per questo, e in modo paradossale, di tutti e di nessuno.

Accecati dagli effetti indiretti del coronavirus Sars-CoV-2, di cui lo "stato di eccezione" offre certamente il più solido sapere per poterli stigmatizzare, si rischia però di smarrire la necessaria attenzione che anche quegli effetti diretti del virus, nonostante tutto, continuano a rivendicare. Agamben scrive che ormai «è evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto al pericolo di ammalarsi». Resta però da capire, di converso, se non si stia già sacrificando molto di più, scotomizzando proprio gli effetti diretti del virus: non solo vittime e ammalati ricoverati, ma anche quei numerosi piccoli gesti che, nella loro ordinaria eccezionalità quotidiana, popolano in queste ore gli ospedali.

«Non ho mai vissuto un'esperienza come questa, così di emergenza, ha stravolto completamente il nostro modo di lavorare, di pensare, di vivere. Ma ho visto un gruppo infermieristico che ha reagito molto bene, che spontaneamente è andato incontro all'autoisolamento, dalla famiglia, anche a casa, sono state fatte delle scelte difficili per dare il massimo dell'assistenza ai pazienti che sono stati ricoverati da noi».

Sono le parole, anonime e distanti, eppure così prossime, che un'infermiera di uno degli ospedali più in difficoltà del nord Italia ha affidato pubblicamente ai microfoni di RaiTre. Ve ne sono probabilmente molte altre di parole simili, tra quelle di medici, infermieri e personale sanitario di ogni ordine e grado. La domanda che ci poniamo, dunque, è se non valga la pena di ascoltarle anche tutte queste voci. La definizione filosofica dell’essere umano quale animale dotato di linguaggio è stata probabilmente la più fortunata e ricca di conseguenze. Ve n’è poi un’altra che ci pare calzante, letteraria e che non ha nemmeno forse la pretesa di essere davvero una definizione, affidata corsivamente da Dostoevskij alle prime pagine di "Delitto e castigo": «Hanno pianto un poco, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo!». Il che tradotto in definizione suonerebbe più o meno come: l’uomo è quell’animale che si abitua a tutto. Ad ognuna di queste "definizioni" risponde forse un corrispettivo pericolo, ed entrambi riguardano oggi più che mai ciascuno di noi. È allora per questo che tutti, filosofi e non, dovremmo in questo momento accettare di restare a casa, ciascuno cercando però di preservare il proprio stato di attenzione…

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