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La ballata macabra di Joker

Appunti dal cinema: il nuovo film di Todd Phillips "Joker" interpretato da Joaquin Phoenix

Alfred Hitchcock nella sua lunga intervista/conversazione con François Truffaut, ad un certo punto, spiegava di aver stabilito nel corso della sua carriera quella che definiva una «grande regola cardinale» del cinema: «Più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film». La nuova opera di Todd Phillips, irregolare nella sua filmografia, ha se non altro il merito di aver assunto, non sappiamo con quale grado di consapevolezza, tale affermazione spingendola così in fondo da stravolgerla negli effetti. Joker, infatti, è un film in cui non vi è che il cattivo. La regola cardinale di Hitchcock è dunque portata al suo limite estremo: fare un film dove il cattivo si prende tutto, vendicandosi sin da subito della marginalizzazione che i codici morali del cinema e delllo storytelling, normalmente, impongono al male. Joker detronizza Batman ed invade lo schermo, esattamente così come accade graficamente con i caratteri cubitali gialli del titolo che, all'inizio del film, saturano senza residui il campo della visione dello spettatore.

Eppure le cose non sono poi nemmeno così semplici, perché se è vero che il Joker che tutti noi conosciamo è il "cattivo" di Batman, è altrettanto vero che il Joker interpretato da Joaquin Phoenix non è il Joker che tutti noi conosciamo. Si dà infatti il caso che la formula hitchcockiana citata, venga costretta ad un'ulteriore straziante torsione: non solo un film dove il "cattivo" si prende tutto, bensì un film dove il "cattivo" è anche il buono. Il segreto della forza del personaggio Joker, e dunque anche del film, la sua ambivalente ed indissociabile capacità di sedurre e respingere, è forse proprio innanzitutto racchiusa in questo peculiare processo di fagocitosi caratteriale. 

Le letture psicoanalitiche, da più parti echeggiate, della figura di Joker possono certamente essere anche ritenute legittime: Arthur Fleck/Joker lo schizofrenico che allucina un'intera storia d'amore con la ragazza di colore che abita al suo stesso piano, Arthur Fleck/Joker lo psicotico che ha forcluso il Nome del padre e ora si ritrova a patire il ritorno del reale nella forma di un cazzotto sui denti che vorrebbe castrarne, fuori tempo massimo, il sintomo di una risata irrefrenabile. Eppure Joker sembra altresì abitare una dimensione irriducibile a quella edipica: di chi è figlio Joker? È davvero un figlio? È forse Thomas Wayne il candidato sindaco di Gotham City suo padre, così come sostiene sua madre? Joker sarebbe dunque il fratello "bastardo" di Batman (altro complesso in arrivo...)? Tutto avrebbe un senso, ma dietro ogni sorriso vi è il pianto: forse Joker è stato adottato da sua madre, seviziato da piccolo da uno dei compagni di questa e picchiato fino a causargli traumi cerebrali. Forse, sì perché potrebbe anche darsi che si tratti solo di una messinscena, ordita da quel supposto padre che pur di non riconoscerlo quale figlio avrebbe letteralmente fatto carte false. 

A differenza di Edipo, che sa ma non vede, Joker vede tutto (legge i documenti segreti e si decide per l'uccisione della madre), ma ugualmente non può sapere. Visione e conoscenza nel suo caso non riescono a collimare, resta una scissione tra le due, lo spazio impensabile dove la figura di Joker plana, sprofonda e riemerge in balia di una risata che non cessa di trasfigurarsi in pianto. (Non) figlio della sua non-madre, (non) figlio del suo non-padre, è questa la singolare condizione di Joker. Un figlio senza genitori, il che non significa orfano (questa è un'altra storia...), figlio ingenerato piuttosto, un non-nato, senza né padre né madre perché in fondo mai nato, un invisibile la cui vita non è mai iniziata. Mai, prima di questo film, che è appunto la genesi di un figlio senza genitori. C'era bisogno del cinema perché a Joker potesse essere attribuita una nascita.

Joker abita il vuoto, è un buco nell'ordine del senso, una fessura, Joker non parla e nemmeno "viene parlato", Joker ride, è quella risata che non cessa di convertirsi in pianto, è l'incavo di un taglio senza pareti, un taglio che non può essere a sua volta tagliato, la fossa dove i significanti si perdono, inefficaci, nel nulla di una risata. «Non ho più niente da perdere», dirà verso la fine del film Joker, ma è questo il suo demone: il nulla da perdere, poiché in Joker tutto si perde (che è poi lo stesso del tutto si vince proprio del "Jolly" nel gioco delle carte). Come nasce la risata, come nasce cioè quel luogo dove tutto si perde? La storia della genesi di Joker, è la storia della nascita di una risata, di una lacerazione superficiale sul volto dell'umano in grado di spalancare il baratro del non-sapere, di aprire il gorgo dove senso e non-senso, gioia e tristezza, riso e pianto, restano ancora per un istante indisgiungibili, ancora in via di definizione. 

La genesi ambigua dell'ingenerato Joker è il dritto e il rovescio del senso, luce ed ombra, sofferenza e gioia, storia della carcerazione di un criminale e, cionondimeno, processo soggettivo di liberazione. Per questo Joker piange ride, non può non piangere e ridere allo stesso tempo: «Pensavo che la mia vita fosse una tragedia, ma ora ho capito: è una commedia», dirà ad un tratto Arthur Fleck/Joker. È l'una e l'altra cosa, passa dall'una attraverso l'altra, senza smettere di essere la prima delle due cose. Questa indecidibilità dei sensi opposti incarnata da Joker trova all'interno del film una sua emblematica costruzione nel gioco di rimandi evocati dalla presenza di Robert De Niro. Prendiamo un esempio su tutti: così come il Travis Bickle interpretato da De Niro in Taxi Driver, anche il Joker di Joaquin Phoenix oscillerà fino all'ultimo verso la pulsione suicidaria, rivolgendo a più riprese (compiendo lo stesso identico gesto) immaginariamente la pistola verso di sé, salvo poi fare fuoco su altri esseri umani, finendo così con il commettere invece una serie di omicidi. Stesse pulsioni, stessi gesti, stessa pistola che spara, ma il senso si rovescia: Travis Bickle nella carneficina finale del film di Scorsese si "eroizzava", Joker animato dagli stessi moti si ritrova piuttosto "anti-eroe" del futuro eroe Batman. L'uccisione del De Niro anchorman comico di successo in diretta tv, sembrerebbe fare i conti simbolicamente e in via definitiva con il Travis eroe di Taxi Driver (oltre che con il Rupert Pupkin di Re per una notte). Ma il nascente anti-eroe Joker, tuttavia, ritroverà ben presto anche una sua indecidibile dimensione eroica. Questa volta non sarà il riconoscimento ufficiale dei titoli di giornale ad attribuirgliela, bensì quello "bastardo" di una folla incendiaria che, dopo averlo liberato dall'auto di polizia che lo avrebbe dovuto trasferire in prigione, lo acclamerà in un sorriso di sangue quale "eroe" della rivolta dei reietti.

Joker non parla, lo abbiamo detto, Joker ride, anche quando vorrebbe parlare le sue parole rischiano costantemente di essere sopraffatte da un accesso di risa. Ma non è solo questo, Joker ride e tuttavia vi è dell'altro: Joker è quella risata, indicibile così come ingovernabile, o meglio, la storia di Joker, la storia della genesi di Joker, è la storia della soggettivazione di una risata. Come posso diventare la risata che sono? È questa la domanda, sconvolgente e inaggirabile, che ossessiona il corpo di Joker, e la risposta è soltanto una: danzando. Joker per diventare la risata che è, per soggettivare la sua risata, dovrà imparare a danzare. Per questo è possibile affermare che l'opera di Todd Phillips è tanto un film sulla risata, quanto un film sulla danza. Che cos'è la danza? La danza è un movimento in perdita, è una caduta che non cessa di cadere, una sfida lanciata alla forza di gravità che appesantisce i corpi, la danza è la costante ricerca di un equilibrio attraverso il dis-equilibrio. Non si può danzare senza rischiare di cadere, o meglio, non vi è passo di danza che non si confronti ad ogni istante con il vortice della caduta. La ballata di Joker ha il suo inizio, non a caso, proprio con una caduta, quando dei giovani teppistelli gli sottraggono il cartello pubblicitario e fuggono con il suo "prezioso" strumento di lavoro. Joker, o per meglio dire Arthur Fleck, qui non sa ancora danzare, dunque corre e, proprio così come cammina, lo fa goffamente, con le sue ingombranti scarpe da clown di strada. Joker è schiacciato dalla forza di gravità, finirà a terra, picchiato brutalmente da dei ragazzini meno grevi di lui.

La metamorfosi di Arthur Fleck/Joker coinciderà con il progressivo apprendimento dei suoi passi di danza, passi che andranno così componendo la ballata macabra di Joker. Per qual motivo macabra? Perché ad ogni passo appreso di tale ballata, scorrerà il sangue, letteralmente: prima in metropolitana, poi nella stanza dove la madre è ricoverata, quindi nel suo appartamento, e ancora nello studio televisivo durante lo show di Murray Franklin-De Niro, fino all'iconica camminata finale, dove per ciascuno dei suoi passi, alterati in umoristico balletto dall'uso sapiente del ralenti, corrisponderà una traccia di sangue impressa sul bianco del pavimento di un ospedale psichiatrico (l'Arkham Asylum?). Quella di Joker è dunque la storia di una caduta costantemente rinviata poiché non cessa di essere rilanciata in passo di danza, è la storia di un ostinato sottrarsi alla caduta attraverso la danza, proprio come avviene per il Charlie Chaplin sui pattini in quel Tempi Moderni che ritroviamo proiettato in una sala cinematografica, gremita di ricchi in frack, nella Gotham City del film di Todd Phillips. La sequenza della scalinata che Joker, finalmente trasfigurato nella sua risata, percorre scendendo a passo di danza sulle note glam rock di Gary Glitter, dopo averla più volte in precedenza risalita a fatica, resterà giustamente tra quelle più potenti che il cinema abbia mai saputo creare. Joker è un assassino, ma in lui vediamo nient'altro che leggerezza. Joker è uno squilibrato, ma in lui non possiamo che ammirare il tetro candore della sua risata che è la messa in discussione di ogni equilibrio precostituito.

Non è forse qui, dunque, che s'inserisce il tratto politico del film? Joker è davvero il vendicatore degli oppressi, detto in brutale sintesi, Joker è la rivoluzione? Anche in questo caso, non vi può essere unilateralità nella risposta, Joker politico resta ambiguo, mostrando di poter incarnare entrambi i lati, quello singolare e quello di massa, dell'umano in rivolta. Un esercito di topi di strada, di reietti sociali abbandonati dall'indifferenza di ricchi e potenti, è pronto a fare di Joker la propria maschera sghignazzante e devastatrice alimentata dal risentimento: è il côté paranoide di Joker, futuro capo popolo di una massa assuefatta, di un'orda già pronta a celebrare il rito fusionale con il nuovo condottiero dei diseredati. Non sfuggirà certamente che, nel conflitto con l'eroe Batman, è proprio questo il ruolo in cui Joker viene significativamente relegato. Il film di Todd Phillips ha invece la sua forza maggiore proprio nel non riproporre tale schema, preferendovi il lato intimista, il suono straziante del violoncello islandese, il côté singolare di Joker, pur avendo l'onestà di mostrare anche il possibile suo rovescio. 

Qual è dunque il tratto politico singolare di Joker, qual è la paradossale etica che la risata di Joker ci impone di considerare? Quando un gesto di gentilezza di Arthur Fleck viene ricusato, quando egli subisce un torto qualsiasi, il suo corpo, interdetto all'azione, è quasi sempre assalito da una risata che lo deforma: è la sua "malattia mentale", come recita il cartellino che si porta appresso, la sua condanna inesorabile, ma è anche la sua salvezza. Se l'essere umano fosse soltanto un animale dotato di linguaggio, Arthur Fleck non avrebbe avuto alcuna speranza. Ma la figura di Joker ci insegna che l'uomo non è soltanto quell'animale che parla, bensì altrettanto un animale che ride. Disarticolato da ogni logica dell'azione, soggetto di scarto nella società ed impossibilitato ad aderire alle sue dinamiche performative, il destino di Arthur Fleck avrebbe dovuto essere il più scontato e semplice: restare invisibile. Un'esistenza in-significante la sua che ben si sarebbe sposata con l'abbandono e l'oblio. Una vita che tutti avrebbero potuto ignorare, o meglio ancora, una vita della quale tutti possono legittimamente sentirsi in diritto di ridere. «Chi ha il potere di decidere ciò di cui è lecito ridere e ciò di cui invece non si può ridere?», domanderà alla fine Joker/Arthur Fleck al conduttore dello show televisivo Murray Franklin. Soggettivare l'abisso della sua risata, è questa la terribile salvezza che porterà infine Arthur Fleck a danzare i passi di Joker, è questo il processo che rovescerà il suo destino d'invisibile nell'iperevidenza televisiva. 

Ancora una volta abbiamo il coabitare di opposti che non si negano, rispecchiandosi piutttosto l'uno nell'altro. Se la maschera di Joker si fa dunque portatrice di una qualche istanza etica, questa non potrà che passare attraverso la domanda: come è possibile donare agli invisibili della Terra un orizzonte di visibilità, senza lasciarsi accecare dai facili miraggi dell'iperevidenza televisiva? La figura di Joker apre a questa domanda, così come si apre la porta ad un nano deforme per farlo uscire dalla stanza dove è appena stato commesso un omicidio, e cioè ridendo. Ma, ormai lo si è detto più volte, in fondo quella risata che Joker è chiamato a sperimentare e vivere soggettivandola, altro non è che un pianto colmo di dolore, e che tuttavia non cessa di riconvertirsi in risa. "Il cinema è il cinema", avrebbe detto qualcuno, "That's Life" cantava Frank Sinatra e, forse, ancora una volta in Joker le due cose si tengono insieme.

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