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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Pfas, nessuna rabbiosa protesta contro una grande contaminazione

Uno dei più controversi casi di inquinamento delle acque e sembra che a nessuno interessi nulla

L’affaire Pfas ha riempito le cronache dei quotidiani regionali. Quelli nazionali non sono stati da meno e lo stesso si può dire delle televisioni. Si può dire pertanto che la vicenda ha avuto un certo clamore sui media. Nonostante tutto stringi stringi, di uno dei più controversi casi di contaminazione di tutto il Paese alla gente non frega una beneamata mazza.

Eppure di fatti strani che dovrebbero far gridare allo scandalo ne sono accaduti a bizzeffe.

Basti pensare al fatto che sebbene il caso sia deflagrato nel 2013-2014 è emerso che gli enti collegati alla Regione Veneto sarebbero dovuti intervenire già dal 2005. Di più dal 2013 ad oggi né la procura della repubblica di Vicenza né tanto meno la Regione o i suoi satelliti sono stati in grado di caratterizzare il danno ambientale per poi imporre al privato cui viene addebitata la contaminazione, la trissinese Miteni, uno straccio che sia una straccio di bonifica. Conferenze di servizi, tavoli tecnici, briefing, vertici, supervertici, tavole rotonde, quadrate e triangolari, grembiulari, non hanno prodotto un risultato che fosse degno di nota.

Nel frattempo alla Miteni con tutta le comodità e la calma del caso veniva curiosamente concesso di fallire con la prospettiva che la bonifica, se mai ci sarà e se mai qualcuno sarà in grado di capire quanto dovrebbe costare (sempre che sarà quantificata correttamente), la pagherà pantalone. Di pari passo dai codici penali e civili della magistratura vicentina e veneta l’istituto della rogatoria internazionale, che in altri distretti giudiziari è usato abitualmente per pizzicare i patrimoni esteri frutto di reati o presunti tali consumati in Italia, svaniva come una scoreggia nello spazio senza lasciare traccia: tanto che non è da escludere un passaggio a «Chi l’ha visto», così, tanto per tenere accesa una speranza che nel frattempo si è trasformata in un flacone di vaselina. Ci sono poi altre due cosucce che val la pena di ricordare così, senza tanto colpo ferire.

Una commissione regionale che non si accorge, in spregio alla legge, di aver secretato su pressione pressione della Lega, che poi è il partito che esprime il governatore Luca Zaia, i verbali della stessa commissione guidata da un uomo del M5S che è poi quel movimento che della trasparenza aveva fatto la sua bandiera.

Ma queste son quisquilie.

Dopo un caso di contaminazione di tale portata uno s’aspetta che tutti i sindaci lambiti dall’inquinamento mettano in piedi un comitato che proceda in sede penale e civile non solo contro la Miteni, ma anche contro quegli organi amministrativi accusabili quanto meno di culpa in vigilando. Ma anche su questo versante il nulla, parafrasando lo storico Salvatore Settis, è calato sulle menti di molti veneti come un esitante sipario. Niente denunce, niente querele.

Anche il sindacato, dal quale uno s’aspetta una certa dose di incazzosità quando gli tocchi i lavoratori, almeno così dovrebbe essere, si è ben guardato dal premere il grilletto delle azioni legali specie in sede penale: anche per il semplice fatto che i lavoratori della Miteni, che in corpo hanno tanti di quei Pfas da rendere antiaderente una vecchia padella con un solo sputo, hanno tutti i titoli per presentarsi in procura e chiedendo al magistrato di valutare quanto meno la sussistenza delle lesioni gravi.

Pure Legambiente, che a livello locale ha battagliato con tenacia, ha finito per lasciare soli i suoi sul territorio visto che di azioni legali contro la Regione non se ne sente parlare. Qualche eccezione sul territorio c’è stata. Ci sono stati alcuni esposti, alcune richieste di sequestro. C’è stata l’eccezione di Greenpeace, la quale però ha un’altra ragion d’essere, più focalizzata sulla cultura ambientale e alla quale sarebbe ingeneroso domandare di supplire alle carenze dei veneti. Ma tant’è il tempo è passato. E la situazione rischia sempre più d’incartarsi.

Eppure i motivi per chiedere ai numi celesti di scendere già dal trono non mancano.

Basti pensare alle fatwa emessa da Zaia quando a quotidiani unificati sparò uno dei suoi penultimatum contro la Miteni spiegando all’opinione pubblica tra l’inebetito e il frastornato che lui avrebbe imposto una caratterizzazione «a maglia dieci metri per dieci metri»: un penultimatum che è stato puntualmente sfanculeggiato, al momento senza uno straccio di motivazione, dagli organi tecnici di Regione, Provincia e Comune di Trissino: pur a fronte dell’esplicito richiamo del mignolo destro del governatore: ovvero l’assessore all’ecologia Gianpaolo Bottacin.

Evidentemente quando qualche spin doctor di origine dorotea ha spiegato a Zaia che per maglia stretta non si intende la divisa della Juve ma un controllo arci-rigoroso del sottosuolo della Miteni, da tempo imbevuto di porcherie più o meno aliene, il governatore ha tirato i remi in barca. Quando poi si è scoperto che l’assessore al sostegno all’identità veneta del comune di Trissino, tale Gianpietro Ramina, che ha incidentalmente una delega all’ambiente, accusa la Miteni di volersi servire dell’Arpav come di uno scendiletto, dando ad intendere che l’agenzia ambientale potrebbe esser venuta meno a qualche suo dovere, il grottesco ha toccato l’acme.

Il punto G occultato nella vulva della follia si è messo a vibrare all’unisono col silenzio tombale, il cielo non voglia omertoso, che proveniva non solo dai vertici vecchi e nuovi di Arpav; non solo dalla giunta; non solo dal consiglio regionale, maggioranza o opposizione che fosse; ma pure dall’opinione pubblica e pure da quel dicastero dell’ambiente che vede il paladino pentastellato dell’anti-inquinamento, il generale Sergio Costa, quale nume tutelare.

Tutti zitti madama la marchesa.

Ad ogni buon conto le affermazioni di Ramina sono di una gravità inaudita. Lo stesso assessore, che ha un ruolo politico, dovrebbe spiegare perché se n’è uscito solo ora, visto che ai tavoli più o meno tecnici partecipa da tempo. Il sindaco di Trissino Davide Faccio, della Lega pure lui come Zaia, è stato in silenzio. E anche il ministro agli affari regionali Erika Stefani, trissinese, ha taciuto. Lorsignori hanno preferito invece dire la loro durante la inaugurazione del leone di plastica che è stato posto proprio vicino alla Miteni, come se il suo destino più che ricordare la Serenissima sia quello di fungere da bidone per derivati del fluoro dismessi.

Dal governo poi ci si sarebbe aspettato un chi va là: “bene oggi ci siamo noi, i giallo-verdi, siamo il nuovo, dateci tre settimane e con un decreto legge portiamo a quota pressoché zero i Pfas accettabili nelle acque superficiali, in quelle potabili e negli alimenti. Apriti cielo avrà pensato qualche tycoon dell’industria zootecnica o alimentare. “Se andiamo a sficcanasare davvero in quello che si produce nel triangolo delle Bermuda dei veleni nessuno compra più un uovo, un prosciutto, un pezzo di mandorlato, una bistecca o un’ala di pollo. Meglio che la nebbia salga e i contorni sfumino. Meglio un bel po’ di preordinata confusione mediatica cali all’orizzonte, in modo da distrarre anche quei pochi neuroni rimasti attivi”. Ad ogni modo quando si parla del criterio per cui chi inquina paga siamo alle solite.

Chi inquina non paga. O non paga tutto.

Anche se qualche volta le sentenze definitive arrivano. La storia del Veneto e del Paese è piena di vicende così. Le storie si ripetono tutte più o meno uguali, dall’Ilva di Taranto ai Pili di Venezia, dalla Miteni alla Tricom a di Tezze, dall’affaire mercurio nel Trevigiano alla discarica di Pescantina nel Veronese fino all’affaire Valdastico sud. Sembra di vivere nella celebre scena della «Pantera rosa colpisce ancora» in cui «l’inspector Clouseau de la Sûreté» prima si ceca un occhio da solo con lo sfollagente e poi con lo stesso fa stramazzare al suolo il direttore di banca che cerca di inseguire i rapinatori ai quali lo stesso maldestro ed impareggiabile Peter Sellers raccoglie pure una parte del malloppo senza accorgersi della rapina. In tutta questa giostra però gli imbelli, i furbi, i collusi e i colpevoli galoppano sui cavallini di plastica uno vicino all’altro: vicino anche a chi prova a ribellarsi.

Rimane quindi la domanda delle cento pistole: perché del caso Pfas, nonostante tutta la montagna di merda uscita da ogni orifizio della valle dell’Agno e dal bacino del Guà nessuno scende in piazza come fanno i gilet gialli in Francia? Il problema di fondo riguarda l’inconscio: il nostro inconscio. Mettere in discussione il caso Miteni significa mettere in discussione il modello di sviluppo in cui il Veneto e non solo il Veneto ha prosperato. Una prosperità copiosa sul piano economico che però ha lasciato una catastrofe dietro di sé sul piano ambientale proprio mentre comincia a scemare per di più. Mettere in discussione tutto ciò, mettere in discussione i meccanismi che ci hanno portato a queste estreme conseguenze, significa mettere in discussione noi stessi.

E non è solo una questione filosofica. No, la cosa riguarda quel poco o quel tanto che tutti hanno messo via: dall’auto alla casa, dall’orologio di valore al divano griffato. In questo momento la politica, più o meno tutta, fa tanti proclami. Ma guarda caso i più efficaci («prima noi, prima gli Italiani, prima Veneti, prima il Pil») sono sempre quelli che titillano un immaginario omogeneizzato. L’immaginario di chi prima di ogni cosa deve essere rassicurato di non perdere ciò che ha o che potrebbe avere in più. Bello o brutto, lindo o lercio che sia. «Articolo quinto chi gà i schei gà vinto». È il mantra che ogni giorno alimenta gli adepti dello “sbancala imbancala, imbancala sbancala; tra’ zò fa su, fa su tra’ zò; sbituma sgualiva, sgualiva sbituma. Mio via, via mio» con bestemmia in rima che cambia però di valle in valle.

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