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Senza diritti né tutele, in Veneto sono decine di migliaia gli "invisibili"

A Verona, una giornata di studio su quelle categorie che avrebbero bisogno di assistenza ma che sfuggono ai radar dei servizi sociali

Una giornata di studio per riscrivere il modo di guardare ai diritti delle persone straniere e iniziare a dare riconoscimento, voce e tutele a migliaia di uomini, donne e bambini che oggi, in Italia e nel Veneto, non ne hanno. O ce l’hanno solo nelle dichiarazioni di principio ma non nelle prassi amministrative. È il senso dell’incontro di formazione e studio "Rendere visibili gli invisibili", che l’Ordine degli assistenti sociali del Veneto, l'università di Verona, la fondazione nazionale assistenti sociali e il consiglio nazionale dell'Ordine degli assistenti sociali hanno organizzato a Verona, con il patrocinio del Comune.
Anche la Regione ha fatto avere la sua partecipazione con una lettera del presidente Luca Zaia, il quale ha sottolineato in particolare la sfida di «dare assistenza a chi chiede di uscire da condizioni di violenza e coercizione», citando il progetto regionale Navigare (Network antitratta veneto intersezioni governance azioni regionali). E alla giornata di studio hanno portato il loro saluto il professor Giorgio Gosetti dell'università di Verona e l’assessore ai servizi sociali di Verona Luisa Ceni, che ha insistito sull’importanza di fare rete sul territorio per intercettare gli invisibili e costruire risposte insieme.

convegno rendere visibili invisibili

L'evento era rivolto innanzitutto ad assistenti sociali e operatori dei servizi di tutela e accoglienza, ma l’orizzonte è andato al di là del semplice momento formativo interno. Il senso è emerso dalle parole di Gianfranco Bonesso, antropologo e assistente sociale, già responsabile del servizio immigrazione del Comune di Venezia, che ha coordinato i lavori e li ha introdotti. «Richiedenti asilo, persone in uscita dai centri di accoglienza senza gli strumenti effettivi per potersi inserire, persone con varie forme di riconoscimento giuridico ma privi di riferimenti o di residenza, persone vittime di tratta, di sfruttamento, prostituzione, reti di accattonaggio o spaccio, caporalato, persone senza dimora prive di riconoscimento o il cui progetto migratorio è fallito, persone ancora non inserite in meccanismi di protezione perché arrivati da poco, spesso lungo le rotte balcaniche, persone che non hanno gli strumenti culturali per esprimere o addirittura riconoscere i bisogni (come un figlio disabile o un’altra condizione di grave disagio), o, infine, persone intrappolate in meccanismi giuridici legate ai cambiamenti della legislazione - ha detto Bonesso - Sono queste le categorie in cui si inseriscono coloro che diventano "invisibili" per i servizi e a cui facciamo fatica a dare risposta».
Si tratta di tante categorie, che si possono tradurre, complessivamente, in numeri importanti, ha proseguito Bonesso: «Al 31 gennaio 2023 sono circa 6.700 gli immigrati nei centri di accoglienza del Veneto, in gran parte nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), circa un decimo nei poli Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), gestiti dai comuni. Il problema è che quando le persone escono dal percorso spesso non hanno gli strumenti per essere autonome. E i posti disponibili nei Sai, dove dovrebbero andare per fare un passo in più, sono 700, a fronte di una platea di circa 6.000 persone in uscita dai Cas. Un disequilibrio che tocca 5.300 persone che possono alimentare l’esercito degli invisibili non tutelati. E le stime Ismu 2022 (con dati al 1° gennaio 2021) indicano 519mila persone prive di permesso in tutta Italia, a fronte di 5 milioni di stranieri regolari. In Veneto, possiamo calcolare che siano tra i 30 e i 40mila le persone senza documenti. Come? Sulla base di una stima ulteriore fondata sull’accesso alla sanatoria del luglio 2020, a cui hanno aderito in 15mila in Veneto. Per esperti e associazioni di settore questa cifra corrispondeva a un terzo del totale degli irregolari. Se allora sono rimaste fuori 30mila persone, tenendo conto che il numero è probabilmente cresciuto, ecco che possiamo ipotizzare che in Veneto ci siano tra le 30mila e le 40mila persone prive di status regolare e quindi di tutele».

Poi c’è il grande capitolo della tratta, che sia sfruttamento sessuale, lavorativo o altro. Dal 2021 al 31 dicembre 2022 il progetto Navigare ha, sull’intero territorio veneto, preso contatto con 3.108 potenziali vittime di tratta. «Ma le prese in carico hanno numeri più ridotti», ha spiegato Bonesso. E anche l’emergenza Ucraina rischia di alimentare il problema: «In Veneto al 27 gennaio 2023 risultano 14.102 persone con richiesta di protezione temporanea legata all’emergenza della guerra, di cui 5mila minori. In molti casi si tratta di persone che hanno ricevuto più facilmente uno status di tutela rispetto ad altri stranieri, ma questo non basta a considerarli "a posto", e quindi fuori, soprattutto tra qualche tempo, dal rischio di diventare invisibili».

A fronte, dunque, di una platea non misurabile con certezza, ma sicuramente molto ampia, i problemi reali sono gravi e le risposte limitate, ha detto ancora Bonesso: «Pensiamo alle persone con asilo, quindi con status anche definito, che non hanno i mezzi per accedere al welfare: dalla sanità alla formazione, dal lavoro alla casa». E poi, molto spesso, gli stessi soggetti non riescono neppure a riconoscere come tali i propri bisogni. «Se poi a questa difficoltà di analisi, si aggiunge una precarietà giuridica, una distanza fisica o anche culturale dai servizi, queste persone restano in balia di se stesse», ha proseguito Bonesso, il quale ha aggiunto che la pandemia non ha aiutato: «Le modalità di accesso online, ma anche quelle telefoniche sono spesso inadeguate per queste persone e non in tutti i servizi si è tornati a una piena disponibilità degli sportelli».

Infine c’è un problema di incrocio tra i piani specialistici per gli stranieri e i servizi ordinari di welfare del territorio, «sia in termini di scambio di informazioni, sia nell’accesso e nella disponibilità dei servizi territoriali, talvolta manca il collegamento tra i servizi», ha dichiarato Gianfranco Bonesso. E capire il fenomeno è solo un primo passo, perché poi serve anche un approccio più lungimirante in termini di utilizzo e condivisione di conoscenze e strumenti, come, ad esempio, la mediazione linguistica. «Perché - ha concluso l'antropologo - può permettere alle persone anche di riconoscere bisogni, anche derivanti da disagi molto gravi, che altrimenti non hanno i mezzi culturali per vedere».

Anche strumenti per leggere relazioni e bisogni possono essere molto utili. Vittorio Zanon, assistente sociale presso il Comune di Verona, ha condiviso con Roberto Della Chiara una presentazione in cui entrambi hanno messo in luce l'importanza di usare strumenti professionali classici, come il genogramma (una mappa delle relazioni familiari), come pure di utilizzare un software in modo innovativo nell'approccio ai fenomeni sociali, per andare oltre le azioni di tutela delle singole vittime di tratta e fornire rappresentazioni più complessive dei fenomeni. «Lo scopo - ha spiegato Zanon - è facilitare le politiche sociali e le azioni di rete più efficaci e meglio condivise da parte dei soggetti pubblici e privati coinvolti».

Ma non è solo un problema di strumenti. Per "rendere visibili gli invisibili", è stato sottolineato durante la giornata di studio, occorre un approccio diverso, anche da parte degli stessi assistenti sociali. «Siamo chiamati sempre di più - ha detto Bonesso - a essere un po' meno funzionari condizionati dai limiti delle diverse amministrazioni e da regole e procedure, e molto più professionisti, in grado quindi di fare appello ai principi deontologici che orientano la professione».
Un approccio quindi più libero e attento alle urgenze, basato sulla responsabilità deontologica e sulla tutela dei "beni costituzionali" che le professioni hanno come compito nell’ordinamento costituzionale italiano, arricchito dal recepimento nel diritto nazionale di carte e trattati internazionale a tutela dei diritti umani.

GAZZI e ZAMBELLO

«Questo evento - ha sottolineato la presidente dell’Ordine degli assistenti sociali del Veneto Mirella Zambello - rientra nel nostro impegno a offrire formazione e aggiornamento su tematiche sociali segnate da una sempre maggiore complessità. Nelle nostre città e sul territorio in generale cresce il numero di persone da tutelare, in quanto particolarmente fragili e vittime di sfruttamento, che non hanno o non trovano accesso ai servizi, o addirittura li temono. Una situazione che richiede un approccio più coraggioso e consapevole anche da parte nostra, anche se molto è stato fatto. Per esempio, abbiamo aderito al progetto Navigare della Regione Veneto. Poi è necessario rinforzare il sistema integrato dei servizi per tutelare i diritti umani, per renderli esigibili attraverso proposte ed interventi in grado di rispondere alle emergenze sociali, che sono presenti nei nostri contesti sociali. Gli assistenti sociali hanno sviluppato una specifica competenza professionale nel creare sinergie e partnership, che possano rinforzare nelle nostre comunità locali, un sistema di risposte maggiormente efficaci. Nello stesso codice deontologico degli assistenti sociali si richiama al ruolo promozionale del professionista nei contesti sociali, e ciò si può realizzare attraverso l'impegno nell'offrire servizi di supporto e di protezione, ma anche percorsi di reinserimento sociale e di inclusione verso un sistema di giustizia sociale».

E dal presidente dell’Ordine nazionale Gianmario Gazzi è arrivato un richiamo agli assistenti sociali: «Se c’è un tema che la nostra professione deve affrontare è proprio quello degli invisibili, i cui numeri stanno aumentando. Come professionisti del servizio sociale ci dobbiamo chiedere se questa società sta funzionando o se questo fenomeno sia legato a un aumento delle diseguaglianze». Gazzi ha inoltre invitato gli assistenti sociali a «non appiattirsi su prestazioni e procedure, ma a formarsi per creare soluzioni nuove che prevengano l’invisibilità: abbiamo un ruolo politico e siamo chiamati a incidere sulle politiche sociali, a non limitarci ad agire per "riparare" o "rincorrere" la cronicizzazione, ma ad agire sulla prevenzione immaginando nuove risposte».

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