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Venerdì, 19 Aprile 2024
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Amadou Càmara, storia di una morte indifferente nella città dell'amore

Era un ragazzo di 24anni, morto il 13 febbraio, l'ultimo periodo di vita trascorso in strada

Amadou Càmara è morto, nella città di Verona è morto un invisibile. Suona forse retorico e, allora, proviamo a dirlo senza moralismi chi è un invisibile. Un invisibile è qualcuno che si può facilmente dimenticare dopo la sua morte, così come facilmente lo si è potuto dimenticare mentre era in vita. Un invisibile, è qualcuno che si poteva anche non vedere quando gli si passava accanto, lo si poteva non ascoltare quando provava a rivolgerci la parola, un invisibile è qualcuno il cui ricordo può scomparire nell'oscurità dell'oblio senza il bisogno di essere cancellato, perché il vero problema è riuscire a far emergere anche una sola volta alla luce della coscienza, la presenza della sua memoria.

Qualcuno che il ricordo di Amadou Càmara sta provando a conservarlo c'è, si tratta dei suoi amici, i suoi "fratelli", e dei volontari della Ronda della Carità di Verona che, durante gli scorsi mesi, hanno avuto modo di conoscerlo, si sono fatti raccontare la sua storia, lo hanno aiutato, consigliato e, nonostante tutto, lo hanno alla fine perso. Chi era Amadou Càmara? Difficile dirlo. La sua è «una storia costellata di rifiuti», come l'ha definita il vicepresidente della Ronda della Carità Alberto Sperotto, culminata nella morte dello scorso 13 febbraio in un letto dell'ospedale di Borgo Roma. Qui era stato ricoverato nel reparto di "Malattie infettive", arrivato dopo un paio d'anni vissuti dormendo in strada, qui ha compiuto il suo ultimo viaggio. 

La morte di Amadou Càmara

Nonostante le numerose negazioni e privazioni che la sua esistenza gli ha voluto riservare sin da subito, il 24enne Càmara ci è stato descritto come «pieno di vita» da tutti coloro che lo hanno conosciuto. Una vita non facile la sua. Nato in Guinea, aveva perso il padre nella guerra della Sierra Leone, mentre all'età di 9 anni era poi rimasto orfano anche della madre. A 12 anni si era ritrovato in Kenya a lavorare nelle miniere, in compagnia di altri "dannati della terra" che come lui trascorrevano anche 12 o 14 ore alla ricerca di una qualche "fortuna", non la loro. Trasferitosi poi in Costa d'Avorio, Càmara ebbe modo di innamorarsi, aveva infatti conosciuto la donna che avrebbe voluto sposare, ma di soldi non ne aveva e, dunque, la loro è restata la storia di due "promessi sposi". Ebbe però un figlio dalla sua amata, e fu per cercare di guadagnarsi un matrimonio e un futuro per la sua agognata famiglia che Càmara decise di affrontare il deserto e poi il mare, lasciandosi alle spalle un bimbo di 8 mesi e la madre.  

Giunto in Libia, Càmara ha iniziato a lavorare per raccogliere i soldi che gli avrebbero potuto consentire di salpare in mare e affrontare un nuovo viaggio, quello verso l'Italia. Gli orrori della Libia, lo sfruttamento subìto, lavorando spesso senza essere pagato, le scene viste durante la traversata del deserto, segneranno la sua mente rendendolo un soggetto vulnerabile. Il suo arrivo in Italia, e più esattamente in Sicilia, è datato 25 dicembre 2015, il giorno di Natale. Da un centro di accoglienza all'altro, Càmara è stata accolto prima a Crotone, poi trasferito in Veneto, nel centro di Costagrande, e ancora a Buttapietra, quindi è arrivato in città a Verona. Qui la sua permanenza nel centro d'assistenza che lo aveva ospitato, si è conclusa quando i suoi documenti non gli hanno più consentito di rientrare nel progetto di accoglienza. Amadou Càmara si è così ritrovato in strada, aveva anche provato ad avanzare la richiesta di riconoscimento della protezione internazionale, ma nonostante le sue condizioni di salute siano precarie e i traumi psicologici evidenti, la sua domanda non è stata accolta. Una storia costellata di rifiuti.

Avrebbe voluto lavorare in Italia un paio d'anni, Amadou pensava così di raccogliere il denaro per ricongiungersi con i suoi affetti, far venire in Italia suo figlio e la futura moglie con la quale avviare un'attività che le consentisse di preparare e vendere i suoi gustosi "gâteaux". Sogni che ormai hanno smesso di essere anche tali. La realtà è stata invece quella di un «buco», i suoi amici "fratelli" lo chiamano così, quello dove ha vissuto nell'ultimo periodo della sua vita Càmara. Un sottoscala esterno situato proprio dinanzi alla bella chiesa di San Zeno alla Z.A.I. I suoi amici e i volontari della Ronda della Carità oggi ci hanno accompagnati al «buco», ci hanno tenuto che anche noi potessimo toccare con mano quel luogo intollerabile, affinché anche noi vedessimo l'invisibile.

Il luogo dove Amadou ha vissuto prima del ricovero in ospedale

Nell'ultimo mese di vita del giovane 24enne, le strade dei volontari della Ronda e quella di Amadou si erano incrociate una prima volta il 6 gennaio scorso, era la domenica della Befana, una di quelle dedicate al "barbiere di strada", quando gli operatori si offrono per tagliare i capelli. Amadou si sentiva male, aveva la febbre alta e la cosa non era passata inosservata: «Gli abbiamo consigliato di recarsi in un dormitorio, - ci racconta ancora il vicepresidente Sperotto - così che almeno potesse trascorrere la notte in un luogo caldo. Il giorno dopo lui si è presentato al dormitorio, ma ci ha poi chiamato per comunicarci che non lo avevano accettato. Il motivo era che con sé aveva solo la fotocopia del suo permesso di soggiorno scaduto, mentre per entrare in un dormitorio può essere sufficiente un documento scaduto, ma dev'essere in originale». Nei giorni successivi i volontari della Ronda e Amadou si sono incrociati altre volte. Il 24enne, nonostante le condizioni di salute sempre più precarie, ha infatti continuato a dormire al freddo. Fino a quando, lo scorso 1° febbraio, Càmara si è convinto a chiedere aiuto, manifestando la volontà di essere accompagnato in ospedale, pur temendo di subìre conseguenze per l'assenza di documenti validi in suo possesso.

La prima diagnosi dopo gli accertamenti ospedalieri è stata quella di "tubercolosi", mentre il suo ricovero al policlinico di Borgo Roma durerà fino alla notte tra il 12 e il 13 febbraio, quando intorno alle ore 4.30 il suo cuore cesserà di battere. Arresto cardiaco, ufficialmente, con alle spalle il freddo e l'assenza di cure protrattisi per giorni e mesi che gli sono valsi una fine prematura e, forse, evitabile: «Càmara poteva essere salvato, ma la società non l’ha fatto. - ci dice con voce accorata il presidente della Ronda della Carità Antonio Aldrighetti - Di Càmara ce ne sono tanti e su questo dobbiamo riflettere, perché sono storie che si ripeteranno se non avremo memoria. Il valore della vita è primario, sopra ogni cosa. C’è una forte contraddizione fra le battaglie che la società compie per la difesa della vita umana e queste situazioni, quella di un ragazzo di 24 anni che muore perché nessuno lo ha saputo proteggere. A Verona manca una cosa importantissima: un programma di accoglienza per chi, dopo un ricovero ospedaliero deve affrontare il periodo di degenze in mezzo ad una strada».

Dinanzi al «buco» dove Càmara aveva vissuto, la sua tana, quest'oggi, eravamo in tre giornalisti. Attorno a noi i volontari della Ronda e gli amici "fratelli" di Amadou. Il suo funerale non si sa ancora quando o dove verrà fatto. Intanto, all'ingresso piccolo e scomodo del «buco» bruciava un cero dalla fiamma tremula, a fianco un cartello con scritte parole a lui dedicate. Attorno la sporcizia, dentro il «buco» materassi e coperte sporche, nell'aria un vociare confuso, alcuni degli amici di Càmara che riprendevano coi loro cellulari noi giornalisti intenti a fare foto. Uno di loro mi ha avvicinato, era molto arrabbiato, mi ha detto che è il terzo amico che perde in questo modo, lui si chiama Alfa, o almeno così ho capito io il suo nome. Alfa mi dice che loro, i «negri», non sono cattivi, che vogliono lavorare, anzi già lavorano in molti casi, nei campi, mi dice, «vedo solo negri» che lavorano, «non dovete avere paura di noi», mi dice ancora e poi mi prende la mano: «Se ti taglio qui il tuo sangue non è rosso? E se taglio la mia mano non è rosso anche il mio sangue?».

Non credo Alfa possa conoscere Shakespeare, ma le sue parole me ne hanno ricordate delle altre molto celebri, «se ci pungete non versiamo sangue, forse?», mi sono allontanato pensando a Shylock, gli occhi un po' lucidi come la prima volta leggendo il suo monologo. 

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